Elena Dendritide e i tre Dioscuri - Arte e mitologia

Fernanda Facciolli
Segno, colore e mito
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Elena Dendritide e i tre Dioscuri
Elena è un nome greco antico che significa “Rotonda” o “Spirale” (da elix, in caratteri greci έλιξ-ικος ). Dendritide significa “Arborea” (dendron, δένδρον = albero).
Nel mito omerico ed esiodeo del tardo VIII secolo a.C. ella era una donna semi-dea perché nata da Leda (umana) e da Zeus, un dio (Od. IV, 184). Era regina insieme a re Menelao della città lacedemone di Sparta. Ma poi fu rapita dal principe Paride di Troia e il fatto scatenò così la omonima guerra tra Achei e Troiani cantata nell’Iliade. Una guerra, ricordiamolo, prettamente mitologica.
Nell’Odissea, Elena compare in veste di regina, ritornata dopo la fine della guerra a regnare nella sua città, Sparta, insieme al marito Menelao. Il figlio di Ulisse, Telemaco, va a trovare i re di Sparta per avere notizie riguardo al padre che non è ancora tornato a Itaca. E Omero ce la descrive con versi pieni di ammirazione: “…Elena fuori dall’alta stanza odorosa venne e pareva Artemide dalla conocchia d’oro. Per lei dunque Adreste, seguendola, collocò un trono e Alchippe portava un tappeto di morbida lana…anche la sposa offrì doni bellissimi ad Elena, una conocchia d’oro e un argenteo cesto a rotelle con gli orli ageminati d’oro. Questo l’ancella Filò le portava, colmo di filo ben torto: e sul cesto v’era appoggiata la rocca, piena di lana cupa, viola (iodnefès). Sedette sul trono e sotto v’era lo sgabello pei piedi” (Omero, Od. IV 121-136).
E’ molto interessante il colore della lana già torta da Elena che le si porta per continuare a filare: “iodnefes” che generalmente viene tradotto con “scura come la viola” o “del colore scuro della viola”; ma è lo stesso termine che Omero usa per descrivere il colore del vello dei montoni di Polifemo (Od. IX, 426). Deduco perciò che si debba tradurre con un “nero come il pelo di un montone” o “nero come la notte”, visto che la lana di un montone nero non è viola ma come i capelli neri può avere riflessi bluastri e assomiglia al cielo notturno che è nero ma brilla della luce delle stelle. Inoltre, quando Omero la chiama Elena Argiva (Od. IV, 184) dovremmo riflettere sul significato di “argiva” che significa “di Argo”. Ma Argo, nome della città micenea dell’Argolide dove secondo il mito regnava Agamennone, potrebbe alludere al cielo notturno, perché significa “Terra Alta” o “Terra d’Argento”, dato che argòs (αργός) significava «splendente, lucente», «argenteo» o anche «bianco» ma ar- era un prefisso esprimente altezza, superiorità e gos sembra connesso con cioè «terra»; da cui si deduce che Argo significava in origine «terra alta» e potrebbe essere stato uno dei nomi che gli antichi abitanti della regione argiva davano al cielo.
Questo ci dice che nell’VIII secolo a.C. la regina Elena, simile alla dea lunare Artemide, era una specie di dea ed era una grande filatrice come Artemide stessa, visto che l’attributo di Elena era lo stesso di Artemide, una conocchia d’oro. Come Artemide sedeva in trono nelle statuine micenee e classiche, Elena sedeva nel racconto dell’Odissea su di un trono con poggiapiedi, e filava uno strano filo blu notte, simbolo secondo me del cielo stellato. Faccio notare che se il filo di Elena era ancora sulla rocca e quindi in lavorazione, il suo colore doveva essere naturale, perché il filato si tinge solo dopo averlo finito di torcere. Successivamente, le dee del cielo (Artemide, Elena, Penelope, Atena, Aracne, ecc.) tessono il manto celeste su cui ricamano con diamanti (le stelle) o fabbricano la rete potente su cui appendono le lampade altissime (sempre le stelle).
A riprova di questa ipotesi vorrei citare una rappresentazione vascolare di un’altra regina che in realtà era stata una dea del cielo, e cioè Penelope. Nel vaso attico a figure rosse (V sec. a.C.) del Museo Archeologico di Chiusi, si vedono una donna pensosa seduta e un uomo imberbe o sbarbato in piedi, interpretati come Penelope e Telemaco davanti alla famosa tela. Su questa tela il pittore del vaso ha dipinto il ricamo della dea-regina: una fascia con una figura umana, alata alle spalle e ai piedi, due cavalli alati e un grifone, tutti mentre corrono da sinistra a destra, e una stella. Secondo me, questa è una rappresentazione del cielo stellato con le sue costellazioni (tutte munite di ali per volare in cielo) che si spostano da Est ad Ovest. Questo significa che forse il pittore del V secolo a.C. non ne capiva più il significato, ma copiava diligentemente per tradizione rappresentazioni più antiche (così come le icone sacre delle chiese ortodosse ripetono ancora oggi l’aspetto e gli attributi dei santi, in uno stile pittorico bizantino). Ma chi aveva dipinto nell’antichità questa scena sapeva che la tela di Penelope era in realtà il simbolo del cielo stellato. E inoltre uomo, donna e telaio sono circondati da un fondo nerissimo contenente piante con gli steli a spirale che sembrano alludere al fatto che la scena si svolge nella notte nera, in cielo e tra i fiori-stella e le onde del fiume Oceano.
La supposizione mia e di molti studiosi contemporanei è che nell’Odissea Omero abbia raccolto i nomi degli dei di molte religioni precedenti a quella olimpica (dei dodici dei dell’Olimpo) e degradati, durante il cosiddetto Medioevo Ellenico (dal XII alla metà del l’VIII sec. a.C.), allo stato di uomini e semi-dei. Per soddisfare una committenza e un auditorio ormai devoti a Zeus e alla sua famiglia olimpica, il poeta avrebbe raccontato le storie di questi dei come storie di re, regine ed eroici querrieri; ma lo avrebbe fatto lasciando, forse volontariamente, numerosi indizi della loro vera, precedente identità.
Mi sembra che dal brano citato si capisca chiaramente tra le righe che a Sparta prima della “rivoluzione” olimpica Elena e Menelao erano gli dei del cielo che risiedevano nel polo, dove avevano i loro troni, con tutte le stelle che giravano loro attorno, essendo la “corte”.
La dea Elena però doveva essere stata all’inizio l’unica dea del centro del cielo, regnante senza sposo. Infatti Menelaos significa “Popolo della Luna” (mene=luna e laos=popolo), quindi in tempi matriarcali egli era il popolo del cielo notturno, cioè la massa delle stelle che gira intorno alla regina e la onora.
Inoltre notiamo che il nome Menelaos contiene anche il nome della luna, “mene”, il che significa che a quel tempo Elena, la regina delle stelle, era la Luna Piena, la Rotonda, e il suo popolo delle stelle la onorava. Per venticinque notti al mese la Regina mostrava agli uomini il suo viso, più o meno velato dal suo manto di lana scura come la notte tempestato di diamanti, per venirci vicino, vedere i nostri bisogni e ascoltare le nostre preghiere, ma poi durante il giorno se ne tornava nel suo trono nel polo celeste, il palazzo a forma di spirale, e non si faceva più vedere.
Nelle pur splendide opere di Omero e in quelle di Esiodo (VIII sec. a.C.) e poi nelle tragedie di Euripide (V sec. a.C.) e di altri, Elena viene descritta come una semplice regina terrena e donna traditrice del marito, ma dimostrerò che questa versione umana era una maldicenza creata durante il Medioevo Ellenico dai credenti della religione olimpica e veicolata in tutto il mondo ellenico per annientare la religione della Dea Elena.
Un indizio della verità è il fatto che nel VI sec. a.C. Elena era ancora adorata a Therapne, presso Sparta, come dea insieme a Menelao, dio e re, nel loro santuario chiamato Menelaion (Herod., VI, 61; Isokr., x, 63; Pol., v, 18 e 21; Liv., xxxiv, 28). Questo era chiaramente una sopravvivenza del culto matriarcale della dea e del suo paredro.
Il Menelaion, una costruzione di origini antichissime (X sec. a.C.), è stato individuato dagli archeologi su di un colle circa a quattro chilometri dalla città di Sparta, a due passi dai resti architettonici di un palazzo o santuario miceneo. Cioè, a Sparta in età storica Elena era una dea e non una donna e nemmeno una eroina, forse la dea luna che risiede, lontana e invisibile, nella spirale del cielo, il polo. Infatti il termine elix compare in Aristotele (Metaph. 998a 5) al plurale, con il significato di “moti circolari” del cielo.
Nella ceramica micenea rinvenuta a Sparta e a Therapne, probabilmente Elena è rappresentata dalle statuine a forma di ψ che presentano la tipica testina «a becco di uccello», simbolo del fatto che la dea vola per stare in cielo; portano in capo il cappello alto e a forma di cilindo con la base concava e a volte forata, come a contenere la fonte d’acqua che è nel polo; ed hanno il torace coperto da segni pittorici rossi che sembrano rappresentare acqua che cola. Sappiamo che quel tipo di figurina micenea, quando è intera e non frammentaria come queste, presenta un corpo eretto, cilindrico come una colonna o il tronco di un albero, e anche il corpo è di solito dipinto a segni rossi di acqua che cola. Sembra che queste figurine della dea del cielo ci dicano due cose: 1) la dea sorregge la volta del cielo, che è la fonte dell’acqua dolce, la sorregge con il suo cappello che è anche un orifizio da cui esce l’acqua, e poi la lascia colare lungo il suo corpo e ce la dona, 2) le sue braccia alzate sembrano invece dirci che ella con le mani fa ruotare la cupola celeste. Ella era dunque una specie di Atlante femmina, che non si limitava a sorreggere la cupola blu ma anche la faceva ruotare. Ma era anche una dea Madre dell’acqua, della pioggia.
Nei rilievi votivi del VI, V e II sec. a.C. esposti nel locale Museo Archeologico, Elena viene rappresentata con una specie di polos in testa, un cappello alto o corona simile ad un capitello egizio di colonna, eretta come nelle statuine, e questa volta in connessione con il culto dei Dioscuri.
 
Nella religione classica dominata dal culto di Zeus, i Dioscuri erano due eroi che soccorrevano i naviganti.
Dioscuri è parola che sembra significare Figli di Zeus (Dios= di Zeus e kouroi= bambini o figli). Ma secondo me  il nome significa Figli di Deò (uno dei nomi di Demetra), la dea nera di Figalia, località della Messenia confinante ad Ovest con la Laconia; oppure di Dione, l’antichissima Dea Madre di Dodona, in Epiro, moglie colà di Zeus e uno dei nomi della madre di Dioniso.
Infatti, sempre secondo il mito storico, i Dioscuri erano figli della umana Leda, ma Castore era figlio di Tindaro, l’uomo sposo di Leda, mentre solo Polluce era figlio di Zeus, che si era unito a Leda con l’inganno. Quindi non si potrebbe dire che erano entrambi figli di Zeus.
I Dioscuri venivano rappresentati in epoca classica come due giovani nudi con il pilos in testa, uno strano cappello a forma di uovo, che era indossato anche da Ulisse e dai Cureti, e spesso associati al cavallo.
Ma in un’epoca più antica dovevano anche loro essere stati connessi con gli alberi. Pausania (IV, 16, 5) racconta che durante la seconda guerra Messenica l’indovino Teoclo cercò di impedire al comandate messenico Aristomene di inseguire i soldati spartani in fuga oltre un certo pero selvatico che era cresciuto in un campo, “perché su quel pero, gli andava dicendo, sedevano infatti i Dioscuri”.
 
Secondo la mitologia, Elena aveva una sorella, Clitennestra, e due fratelli, Castore e Polluce, detti i Dioscuri, che già quando lei aveva dodici anni (numero sacro multiplo del tre) la liberarono dal rapimento compiuto da Teseo e Piritoo. Forse in base a questo mito i Dioscuri cominciarono ad essere rappresentati in posizione araldica ai lati della sorella.
Nel culto spartano di epoca storica, sono numerosi i rilievi votivi in cui sono stati riconosciuti i Dioscuri che fiancheggiano araldicamente la figura di Elena.
In particolare nel rilievo n. 201 esposto nel Museo di Sparta, i Dioscuri sono due, come era di norma in età storica, ed Elena appare in posizione frontale, rigida, con uno strano copricapo, forse un polos, con il quale ella sembra sostenere il limite superiore del riquadro e il fastigio triangolare con al centro un disco cerchiato. Per la rigidità del suo corpo, Elena sembra una colonna e il suo strano copricapo sembra un capitello. Sembra quasi che lo scultore ci dica che Elena è una dea-colonna che sostiene la cupola celeste, che ruota libera da sostegni laterali.
Poi però osserviamo che ella tiene nelle mani due festoni di frutta che le pendono lateralmente, come a dirci che ella è il tronco di un albero sacro.
Ci viene in mente perciò il culto di Elena Dendritide (Degli Alberi o Dell’Albero). Pausania riferisce che a Rodi Elena Dendritide aveva un santuario e un albero sacro (Paus. III 19, 10). Teocrito poi ci informa che a Sparta Elena era onorata nell’aspetto di un platano (Teocr. 18, 43 ecc.)
Infatti, a Rodi ancora in età storica c’era un santuario di Elena Dendritide e un albero sacro sul quale era la scritta: “Adorami, sono l’albero di Elena”. Secondo un mito, quello era l’albero al quale la vedova di un guerriero greco morto a Troia aveva fatto impiccare Elena, colpevole di aver causato il conflitto. Ma il culto degli alberi è di origine antichissima, sicuramente preistorica e quindi precedente alla composizione di quel mito, teso evidentemente a sopprimere il culto degli alberi e a demonizzare la dea Elena. Quindi l’adorazione di origine preistorica che l’albero di Rodi chiedeva era una adorazione per sé stesso.
Anche in Arcadia, regione confinante a Sud con la Laconia, c’era un culto degli alberi, ma questa volta connesso con Menelao. A Gnacalesia di Arcadia c’erano una fonte e un albero sacri : “…poco sopra la città c’è una sorgente, e sulla sorgente è cresciuto un platano grande e molto bello. Lo chiamano Menelaide e dicono che Menelao, quando raccoglieva l’esercito per la spedizione contro Troia,  giunse qui e piantò su questa fonte il platano. Ai giorni nostri chiamano anche la fonte, come il platano, Menelaide.” (Paus. VIII 23,4)
 
L’albero sacro più antico ancora adorato in età storica era la quercia sacra di Dodona. Questa “era oggetto di venerazione ctonia e allo stesso tempo celeste”(Mario Torelli in “Grecia”, Mondadori, pag.143). “In età storica il culto si presentava  nella forma di una triade di divinità femminili intorno a Zeus Nàios: Diòne, moglie di Zeus, la loro figlia Afrodite e Thèmis, l’antica Gè” (Torelli). Dalle fonti letterarie risulta che il santuario oracolare di Zeus a Dodona ha origini antichissime, origini che secondo i reperti archeologici risalgono al XIV secolo a.C. Inoltre, il culto di Zeus si sostituì ad un culto preellenico di Gè (Terra), dea madre della vegetazione.
Sappiamo che la quercia sacra di Dodona in origine, prima della monumentalizzazione del VI secolo a.C., era circondata da un cerchio di calderoni bronzei tripodi, disposti vicinissimi tra loro in modo da trasmettere le vibrazioni se percossi, per dare vaticini sonori.  Ma non è detto cosa questi contenevano: acqua o fuoco? Per vibrare meglio, forse fuoco. In questo caso il tronco dell’albero avrebbe potuto essere il simulacro della colonna divina che, invisibile agli uomini, sorregge il culmine della cupola celeste, cioè il polo; mentre le luci dei fuochi dei tripodi potevano simbolizzare il cerchio di stelle che ruotano lentamente intorno al polo stesso. Sulla probabile credenza preistorica che la cupola del cielo ruotasse intorno al polo grazie al sostegno di una colonna centrale, v. il mio libro “Il giardino celeste”. Secondo le fonti storiche, i sacerdoti credevano Zeus risiedere nelle radici dell’albero.
Ma nelle Argonautiche di Apollonio Rodio leggiamo che Giasone, con il permesso dei sacerdoti di Dodona, prese un ramo della quercia sacra e ne fece il trave di prora della sua nave Argo. Poi scolpì una testa di Era nella trave stessa e questa durante il pericoloso viaggio gli parlava e profetizzava e lo aiutò a superare le peggiori avversità della navigazione. Questo ci dice che lo spirito di Era, e non di Zeus, era nel legno della quercia sacra di Dodona, e che anzi il legno era vivo e la dea del cielo, e consorte di Zeus, Dione (come era chiamata a Dodona) o Era (come era chiamata nel resto della Grecia) era la vera e antica divinità che abitava nella quercia sacra.
Quest’ultima donava inoltre dei frutti, le ghiande, che nella preistoria non erano cibo solo di animali selvatici ma anche degli uomini.
Forse a Dodona, prima dell’arrivo del culto di Zeus, che si accontentò delle radici, la quercia doveva essere stata simbolo e simulacro naturale della dea Dione che abita al polo celeste; forse sua “figlia” Afrodite era lo spirito che animava l’albero stesso, perché un albero è in un certo senso figlio di chi lo disseta con la pioggia. La dea del polo Dione donava la pioggia e sua figlia Afrodite-albero viveva grazie a questa pioggia e donava ai Dodonei i suoi frutti che erano i suoi figli.
Analogamente, Elena Dendritide di Rodi doveva essere stata incarnata nel suo albero che chiedeva adorazione. Ma anche la Elena adorata come dea al Menelaion di Terapne doveva aver avuto, in cima al monticello di terra poi circondato dalla costruzione del X sec a.C. detta Menelaion, un albero sacro simbolo della colonna del cielo. Sicuramente da questo albero pendevano frutti simili a quelli dei rilievi votivi conservati nel Museo di Sparta. E probabilmente era un platano.
I Dioscuri, cioè i Figli di Deo o Figli di Dione, prima di essere stati considerati Figli di Zeus, dovevano aver rappresentato i frutti dell’albero sacro. Quale dono più grande poteva fare la dea-albero del dono dei suoi stessi figli per sfamare gli Spartani? Deo, l’albero, più tardi forse chiamato a Sparta Elena, con il nome della madre celeste che abita nella Spirale, era quindi stato rappresentato come un corpo femminile piuttosto dritto, ma dispensante frutti, i suoi figli. Mentre i Dioscuri, simboli dei frutti stessi, la onoravano e facevano l’atto di proteggerla.
Probabilmente in età preistorica i Dioscuri dovevano essere stati numerosi come i frutti di un albero o come le stelle del cielo, chioma della dea-albero.
Forse all’inizio dell’età storica il loro numero si era già ridotto a tredici (il numero sacro alla dea celeste perché tredici sono le lunazioni in un anno) oppure a sette (essendo sette le stelle poi dette “dell’Orsa” che ruotano intorno alla Signora del polo) oppure ancora a tre, il numero sacro per eccellenza (perché tre sono le stelle allineate più visibili in cielo, le stelle che Omero chiamava già “Cintura di Orione”).
Sulla possibillità che il numero tre per i Dioscuri sia arrivato ad essere contemplato anche in epoca storica, è indizio un passo di Pausania.
Il periegeta scrive di Brasie, una località periferica della Laconia,: “A Brasie …v’è anche un piccolo promontorio dolcemente sporgentesi sul mare, nel quale stanno delle statue bronzee alte non più di un piede, con dei berretti sulla testa. Se essi le ritengano statue dei Dioscuri o dei Coribanti, io non lo so. Le statue, comunque, sono tre e la quarta è quella di Atena.” (Paus.III, 14, 5).
Atena era una antichissima dea del cielo stellato, come prova la forma della sua mantellina, l’Egida, quasi sempre coperta di penne d’uccello (e non di squame, perché il cielo “vola”) oppure coperta da stelle e completata dalla falce di luna o dal Gorgoneion, simbolo lunare (v. la Atena dell’anfora con Odisseo e Nausica da Vulci, ora a Monaco, che riproduco nella fig.11 del mio libro “Il giardino celeste”, ed. Amazon).
Ma a Brasie evidentemente Atena era ancora collegata al preistorico culto del suo albero sacro, l’ulivo, e forse era anche considerata madre dei tre Dioscuri o dei tre Coribanti. Del resto, in Elide le donne avevano deciso di innalzare un santuario ad Atena, dandole l’appellativo di “Madre”(Paus. V, 3, 2). E quindi non è affatto da escludere che in una cittadina così periferica (e poco influenzata dai culti olimpici di Atene) come Brasie, ancora nel II secolo d.C. la gente onorasse la “vergine” Atena come una Dea Madre.
Probabilmente a Therapne (Sparta) la dea del cielo madre degli alberi Atena era sostituita dall’altra dea del cielo, Elena. Ambedue infatti erano dee della fertilità (perché la pioggia che disseta i campi scende dal cielo). Atena infatti aveva per simboli un uccello, la civetta (il cui occhio assomiglia alla luna piena) e l’albero di ulivo. E i Dioscuri, i figli della dea-albero Atena di Brasie, erano diventati i figli della dea-albero di Therapne, Elena.
Fin che i Dioscuri erano stati considerati tre (il coltissimo Pausania non esclude questa ipotesi per le statue di Brasie), erano ancora legati all’idea dei Dioscuri-frutto; ma quando fu stabilito che essi erano due, con i nomi Castore e Polluce, come appaiono nei rilievi di Sparta, ad essi fu attribuito forse il significato delle due simili ma speculari falci di luna.
Nel rilievo votivo del VI sec. a.C. n. 5380 del museo di Sparta, i Dioscuri appaiono fronteggiantisi (non fanno la guardia a nessuno) e incrociano le loro armi, mentre sui fianchi del rilievo stesso due serpenti sembrano rappresentare la loro epifania animale. Due serpenti gemelli sono anche nel mito di Eracle e Ificle (altri due gemelli eroi) e forse anche questi sono l’interpretazione che taluni davano alla forma sottile della prima e dell’ultima falce di luna. Forse all’epoca (VI sec a.C.) i Dioscuri rappresentavano l’uno la falce di luna crescente (la figura a destra) e l’altro la luna calante (quella di sinistra). Il destino della falce crescente è quello di ingrossarsi sempre più, come un dio immortale che aumenta di potenza man mano che passa il tempo; il destino della falce calante è quello di deperire sempre di più fino a scomparire, come un mortale che invecchia e appunto muore.
Da qui il mito che i Dioscuri erano sì entrambi figli di Leda, ma uno dei due era figlio di Zeus e perciò immortale, l’altro era figlio di Tindaro e perciò mortale. Ma alla fine il mito racconta che Zeus, per premiarli delle loro eroiche imprese, li divinizzò entrambi e li portò in cielo formando la costellazione dei Gemelli. Questo era il mito classico, quando era già stata individuata la costellazione zodiacale dei Gemelli. Ma ai tempi di Esiodo e di Omero (fine VIII sec a.C.) la costellazione dei Gemelli non era ancora conosciuta, perciò è più probabile che Castore e Polluce fossero visti nelle opposte falci lunari.
Castore è Κάστωρ e Polluce è Πολυδεύκης. Castore significa «castoro», un roditore dai lunghi denti (ricurvi come falci lunari) che distrugge alberi e modifica con le sue dighe la forma e a volte anche il corso dei fiumi. Polluce o Polideuce significa “Molto dolce” (da polis= molto e da deukìs=dolce), come può essere l’acqua di una fonte o quella che scende dal cielo. Ecco forse il significato dei due serpenti (nel mondo antico simboli dell’acqua dolce) che affiancano i Dioscuri nel rilievo votivo n. 5380 del Museo di Sparta.
In effetti ai tempi di Pausania esisteva vicino a Therapne una fonte chiamata Pollucea e un santuario di Polluce (Molto Dolce).
I due nomi dei Dioscuri mi ricordano inoltre quelli dei due figli della dea lunare Medusa: Pegaso e Crisàore, che significano rispettivamente “Della fonte” e “Spada d’Oro”, come illustro nel mio libro “Il giardino Celeste”.
Credo perciò che la dolcezza di Polluce sia quella della falce di luna crescente, “fonte” della pioggia come della luce della nostra maggiore lampada notturna, e che il Castoro distruttore sia la falce di luna calante, che distrugge l’ultimo pezzo di luna.
Che per alcuni secoli i Dioscuri siano stati considerati falci di luna è indizio il fatto che erano spesso rappresentati come cavalieri, dove il disegno del collo curvo di un nero cavallo dove si attacca la luminosa criniera assomiglia alla sottile falce; inoltre il loro potere di proteggere i marinai dalla furia del mare è parallelo al potere della luna di comandare alle maree. I Dioscuri, oltre che muniti di cavallo, erano sempre rappresentati armati, per combattere la furia delle acque. Ma a Sparta erano anche rappresentati simbolicamente come due grandi anfore portatrici d’acqua. Nel rilievo votivo n. 575 del VI-V sec. a. C. del Museo di Sparta, i Dioscuri sono armati, affrontati e facenti la guardia a due grosse anfore, mentre nel triangolo del fastigio soprastante (simbolo dello spazio celeste) un uovo (simbolo dell’uovo di Leda da cui nacquero Elena e i Dioscuri) è sorvegliato da due araldici serpenti (simbolo delle acque celesti che escono dal polo), dove forse i due serpenti sono un’altra epifania dei Dioscuri stessi.
Anzi, credo che i due “serpenti” lunari gemelli fossero diventati entrambi ad un certo punto Signori delle acque dolci: Polideuce era l’Acqua Dolce che disseta i naufraghi e Castore era come un enorme Castoro, colui che modifica la forma dei corsi d’acqua, quindi non un distruttore ma un dio dei fiumi. Castore poteva quindi essere diventato un fiume come il fratello, oppure colui che indica ai naviganti la foce di un fiume su di una costa sconosciuta.
Nel rilievo votivo del II sec. a.C. n. 613, esposto nel Museo di Sparta, i due Dioscuri sono direttamente rappresentati dalle due anfore d’acqua.
Inoltre, il nome Sparta della città sembra significare La vallata degli Sparti, le entità sparpagliate (=Sparti) che si vedono abitare la volta celeste notturna.
Infatti, gli Sparti, οί Σπαρτοί, letteralmente “i Seminati”, erano gli eroi nati dai denti del drago seminati da Cadmo re di Tebe, entità mitologiche assimilabili alle stelle. Il drago in questione, che faceva la guardia alla fonte sacra, era chiaramente non tanto la costellazione del Draco quanto il Fiume Oceano che circonda la terra. Come spiego nel mio libro Il giardino Celeste, l’acqua luccicante che sembra costituire il cielo notturno sempre in movimento sembra girare a spirale intorno al polo, da cui sembra uscire altra acqua dolce.
Nel quinto secolo a.C. quindi a Sparta Elena, la matriarcale dea-uccello nata da un uovo di cigno (Zeus trasformato in cigno per unirsi a Leda-cigno), forse era il polo che si sviluppa in cerchio (Elicoidale) ed era protetta e adorata dai suoi figli-fratelli Castore (il Castoro che ha potere sui fiumi) e Polideuce (il Dolcissimo, il distributore dell’acqua dolce ai marinai). Dall’ ”occhio” del polo Elena genera l’acqua dolce, che poi immette nei due contenitori a forma di anfora o a forma di sacche di pelle, le due falci di luna chiamate Figli di Zeus.
Sembra quindi che nel II-I secolo a.C. il culto di Elena e dei Dioscuri sia diventato un culto della fertilità, per garantire la vita nella vallata dell’Eurota, in cui Elena, la Regina delle stelle, è coadiuvata dai due cavalieri-soldati Dioscuri, protettori dei marinai.
Ecco che, allora, alla fine di un percorso di vari secoli, il culto più antico di Elena Dendritide e dei suoi figli divini, i Dioscuri-frutto, un culto della fertilità, si trasformò in un culto marinaio in cui i Dioscuri-falce e la loro sorella rotonda, la Regina del polo Elena, proteggevano la navigazione, illuminando la notte e frenando la furia dei flutti, ma anche continuando a donare le piogge e la fertilità della vallata.
Non c’è contraddizione in questa diversità di culto secolare: in certe epoche preistoriche e arcaiche gli Spartani erano soprattutto allevatori e coltivatori e chiedevano alla dea del cielo di proteggere gli alberi da frutto (culto degli alberi), la crescita del grano e degli armenti.
In epoche storiche e più tarde, i commerci e la navigazione divennero una parte sempre più importante dell’economia e gli Spartani chiedevano ai loro dei l’acqua dolce, sì, la tutela della crescita, ma anche la protezione in mare delle loro navi.
 
Ancora adesso in tutta la Grecia sopravvive una sorta di culto degli alberi e delle fonti. Gli alberelli da frutto, nei sagrati delle chiese ortodosse, vengono durante le feste ornati di nastri multicolori, come se le madri dei frutti (le albere) fossero Signore che amano ornarsi i capelli (le chiome verdi) con nastri preziosi. Durante tutto l’anno in Grecia si possono vedere mazzetti di fiori e nastri da capelli lasciati come dono davanti alle fonti selvatiche. Per esempio, li ho visti davanti alla fonte di Figalia e davanti alla cisterna di Atena Afea a Egina.
Ma anche nel mondo europeo, il culto pre-cristiano dei grandi alberi di conifere è sopravvissuto ed è giunto fino a noi nella tradizione dell’addobbo natalizio degli abeti.
 
Nel mio dipinto “Elena Dendritide e i tre Dioscuri” ho rappresentato la dea-albero Elena come un tronco d’albero a forma femminile e tre dei suoi frutti sacri, pendenti da un suo ramo, come tre bimbi che pendono dal suo braccio mentre poppano la linfa vitale. Questo, secondo la mia visione artistica e perciò poetica, dovevano percepire i suoi adoratori spartani, sulla cima del Santuario di Elena e Menelao a Therapne.

Fernanda Facciolli, 19/12/2020
 
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