I cinque figli di Alcinoo - Arte e mitologia

Fernanda Facciolli
Segno, colore e mito
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I cinque figli di Alcinoo
"Nell’Odissea troviamo la principessa Nausica mentre cerca di convincere il padre a concederle di far preparare dai servi il carro delle mule, per portare le vesti dei suoi fratelli al fiume a lavarle, secondo il consiglio della dea Atena, e gli dice:”…cinque tuoi figli ci sono in palazzo, due sono sposi e tre garzoni fiorenti: e vogliono sempre con vesti appena lavate andare alla danza…” (libro VI, vv. 62-65).
Ma come si chiamavano questi cinque figli?
Nel canto sesto non se ne parla ma alcuni verranno nominati più avanti.
Il primo ad essere citato, nel canto successivo, è Laodàmante (Laodàmas, Λαοδάμας), che viene definito “il prediletto (figlio di Alcìnoo) Laodàmante che gli sedeva accanto” (OD. VII 170). Laodàmante potrebbe significare “Domatore di popoli” (da laòs = popolo e dàmnemi = domare), attributo che Eschilo userà per il dio Ares. Sembra dunque di poter dire che  il Domatore di Popoli Laodàmas è un personaggio corrispondente al greco classico Ares e al latino Marte, entrambi dei della guerra. Ma Marte è anche il nome latino di un pianeta del nostro sistema solare, quindi questo figlio prediletto di Alcìnoo potrebbe essere la prima personificazione del pianeta rosso.
Un altro possibile significato di Laodàmante è “Acciaio o Diamante dei Popoli”: Laodàmas infatti potrebbe essere una corruzione di Laoadàmas perché adamas significava “acciaio” e “diamante”, cioè materiali resistenti e inalterabili, da a-damas, “indomabile”. Anche in questo caso si potrebbe trattare di un pianeta molto luminoso (forse Venere o Giove), splendente e inalterabile come l’acciaio e il diamante.
Nel libro ottavo compaiono altri due figli di Alcìnoo: ‘Alio e Clitòneo.
Scrive Omero: “E anche Eurìalo s’alzò, …ch’era il più bello… tra tutti i Feaci, tranne il perfetto Laodàmante: s’alzarono anche i tre figli di Alcìnoo perfetto, Laodàmante e ‘Alio e il divino Clitòneo. Questi si cimentarono prima di tutto alla corsa…e tutti in un gruppo rapidamente volavano tra la polvere per la pianura; tra loro Clitòneo perfetto nella corsa fu il primo” (OD. VIII 118-123).
Alios significa “marino” ed è lo stesso termine con cui Omero designa Proteo, il “Vecchio del Mare” (OD. IV 365). Ora, Proteo (Πρωτευς) significa letteralmente “dio del mattino” (proo, πρω = πρωι = mattino) e si riferisce quindi ad un oggetto celeste, forse il sole, che sorge al mattino o forse ad una stella o un pianeta visibile anche al mattino. Decisamente, quindi, una divinità antichissima e che vive nel “mare di sopra”, cioè il cielo. Di conseguenza, il figlio di Alcìnoo di nome Alios non è un “Marino” ma un “Celeste” perché vivente nel “mare” del cielo.  
Il terzo figlio citato si chiama Clitòneo. Clitòneos, Κλυτόνηος, sembra significare “famoso e bel  tempio” (klitòs, κλυτός = famoso, bello e neòs, νηός = ναός = tempio). Un oggetto ben visibile (famoso, conosciuto) e sacro (tempio), quindi ancora sicuramente una luce del cielo. Inoltre, il suo attributo qui è “divino”.
Che cosa fanno i tre fratelli in questa scena? Prima, insieme a Eurìalo, che non risulta un loro parente, “si alzano”, come stelle e pianeti che sorgono sull’orizzonte, e poi “corrono”, chiaramente tutti nella stessa direzione, essendo una gara di corsa, e lo fanno “volando”. Il termine esatto usato da Omero è επέτοντο, cioè «volavano» (πέτομαι = volare). Non mi si dica che è solo un «modo di dire», perchè allora io chiedo: e qual’é l’origine di questo «modo di dire»?. Se volavano vuol dire che correvano senza toccare terra, come tre pianeti che si spostano in cielo tutti nella stessa direzione. Mentre Eurìalo, che sembra significare “Grande Borchia” (ευρύς  = largo, άλος = ήλος = chiodo ornamentale, borchia) sembra essere stato il nome di una grossa stella, forse anche la stella Sirio, la più bella delle stelle, interpretabile anche come borchia d’oro fissata alla volta celeste.
 
Sia Omero che Esiodo erano dei rapsodi, cioè poeti che componevano i loro poemi “cucendo” insieme racconti più brevi, raccolti oralmente tra storie e religioni del loro tempo di molte regioni della Grecia. Una di queste storie religiose era il mito dei Feaci. La preistorica religione dell’isola di Kerkira-Corfù, che secondo lo storico Tucidide ancora nel V secolo a.C. possedeva in città un tempio di Alcìnoo, evidentemente predicava che la dea Areta e il dio Alcìnoo erano gli dei sovrani del cielo, e non Era e Zeus. La stessa religione isolana probabilmente insegnava che la principessa Nausica era la vergine dea figlia, futura regina, e che i suoi cinque fratelli, di cui si conoscevano forse solo i tre nomi maschili Laodamante, Alios e Klitòneo, erano gli altri principi del palazzo celeste.
Sono perciò convinta che i misteriosi cinque figli di Alcìnoo erano la personificazione-divinizzazione dei cinque pianeti visibili a occhio nudo (i soli conosciuti nell’antichità), i nostri pianeti Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno. E che Laodàmante, prima con il nome di  Ares, poi con il nome di Marte, diede il nome al pianeta rosso.
Mi sono anche chiesta perché il pianeta rosso Laodàmante era il figlio “prediletto” del re dei Feaci.
Credo dipenda dal fatto che gli altri due pianeti più luminosi, Venere e Giove, hanno la stessa luce fredda e Marte è l’unico subito riconoscibile con certezza per via della sua luce calda.
Ai tempi di Omero e di Esiodo (VIII-VII secolo a.C.) il cielo notturno era interpretato come sede di dei luminosi, visibili in forma di fulmini (Zeus), di luna (Selene), di sole (Helios), di aurora (Eos), di stelle e costellazioni (le Pleiadi, le Iadi, l’Orsa, il Boote e Orione)(Od. V 272-275) e di cinque pianeti. E’ logico quindi pensare che in un palazzo di stelle-sudditi che girano costantemente intorno al polo celeste, in cui si immaginava la sede della coppia reale (fosse questa Arete e Alcinoo oppure Kerkira e Poseidone), le luci che si muovevano in modo indipendente secondo un loro moto personale, cioè i pianeti, fossero considerate dei principi.
“Secondo il mito pelasgico della creazione, la dea Eurinome creò le sette potenze planetarie  e mise a capo di ciascuna di esse un Titano (Signore) e una Titanessa: Tia e Iperione al Sole; Febe e Atlante alla Luna; Dione e Crio al pianeta Marte; Meti e Ceo al pianeta Mercurio; Temi ed Eurimedonte al pianeta Giove; Teti e Oceano a Venere; Rea e Crono al pianeta Saturno.”  (Robert Graves: ”I miti greci”, Longanesi & C. 1983, pag. 21, par. d)). Escludendo dalle sette potenze planetarie il Sole e la Luna, restano infatti cinque potenze, che erano i pianeti.
Omero dice che, di questi cinque, due sono sposi mentre gli altri tre sono bimbi ancora in crescita. Probabilmente i due “adulti” sono i pianeti Venere e Giove, che visti dalla Terra sono i più luminosi e quindi apparentemente i più “grandi”, mentre il terzo pianeta per luminosità, cioè Marte, e poi i meno luminosi, cioè Saturno e Mercurio, sembravano “piccoli” e perciò “bimbi”.
Il poeta aggiunge che i cinque principi “vanno alla danza” sempre con vesti pulitissime, noi diremmo “vesti splendenti”. Secondo me, la “danza” è una poetica allusione al loro apparente moto non lineare, che, come spiegano gli astronomi, dipende dal fatto che, muovendosi anche la Terra, a volte li vediamo compiere percorsi contorti, come ripiegantisi su se stessi o facendo una piroetta: si tratta del “moto retrogrado apparente” o “retrogradazione”.
Esiste una statuina etrusca di bimbo o bimba danzante, probabilmente del III-II secolo a.C., esposta nel museo di Cortona (fig. 81); ora naturalmente è di colore verde scuro, ma quando era nuova era sicuramente brillante come un astro del cielo e gialla come l’oro. Questa “bimba d’oro” di Cortona indossa stivaletti alti fino alla caviglia, porta una veste lunga fino al ginocchio, stretta in vita da una cintura, ma soprattutto notiamo che regge un corno lunato, forse alato, e un disco; quest’ultimo reca inciso al centro il segno della croce uncinata ed è contornato da un bordo di sferette. La croce uncinata o svastica era in antichità un simbolo sacro di forza, perché secondo me simbolizzava il possente movimento del cielo intorno al polo, essendo ogni “braccio” la forma stilizzata di un’onda del fiume Oceano. Probabilmente le sfere sul bordo rappresentavano le stelle che lo circondano. Io credo che il corno rappresenti un crescente lunare e il disco con la svastica sia l’immagine del polo celeste attorno a cui ruotano le stelle. La figurina rappresentata ci dice di essere qualcuno (o qualcosa) che abita in cielo.
Purtroppo non appare alcuna scritta dedicatoria incisa sulla gamba e non è stato posto alcun cartellino museale che ne chiarisca la provenienza. Non escluderei che nella religione etrusca questo fosse uno dei “principi” danzanti del cielo, pronto ad accogliere il defunto nel palazzo di suo padre e nel regno dell’oltretomba e che fosse proprio uno dei cinque pianeti, uno dei tre più piccoli. Oppure, se questa statuina fosse invece stata una divinità domestica assimilabile ai latini Lari, potrebbe aver rappresentato il pianeta o la stella in cui si era trasformata dopo la morte l’anima di un antenato protettore.
I latini Lari erano infatti rappresentati come giovani (sempre vestiti) nell’atto di sostenere un rython e una patera ed erano considerati gli spiriti degli antenati buoni, protettori della famiglia. Ma noi sappiamo che da sempre i popoli non tecnologici, almeno nelle loro religioni primitive, considerano le stelle e le piccole luci del cielo come spiriti degli antenati. Dunque deduco che in origine anche i Lari erano, per i popoli latini, stelle del cielo e che sia rython (simile ad un corno di luna) che patera (rotonda come la cupola celeste) erano simboli del cielo stesso in cui le anime dei defunti erano andate ad abitare.
Ma torniamo all’antica Corcira.
Probabilmente l’antica religione di Corfù dichiarava gli dei sovrani, Areta e Alcìnoo, come dèi invisibili, fermi nel polo celeste e circondati dai sudditi stelle, lei addossata alla colonna su cui poggia la volta del cielo, lui seduto sul trono. I loro sudditi luminosi, i Feaci appunto, giravano loro permanentemente intorno, sempre con le stesse regole, di velocità (un giro ogni ventiquattr’ore) e nella stessa perfetta formazione, come se fossero tutti legati gli uni agli altri, come tenendosi per mano in un lento girotondo. Quando gli antichi Corciresi guardavano il cielo verso Borea (verso Nord),  potevano ben credere di intravvedere nella zona circumpolare la stanza del trono e gli dei regnanti tra le stelle.
Però la loro figlia maggiore, Nausica, non girava intorno alla sala del trono. Dormiva tutta la notte mostrando il suo viso addormentato (la luna) a volte parzialmente coperto, a volte per intero, spostandosi lentamente da Est ad Ovest, come su di una barca in movimento, mostrando un solo braccio bianchissimo (la Via Lattea) che usciva dalle coperte. La principessa dei Feaci era avvolta in un peplo o in una coperta blu scuro tempestata di diamanti (le stelle) in una stanza bellissima, “ornata” d’oro e d’argento (altre stelle).
Mentre i cinque principi (i pianeti) tutta la notte andavano a ballare, spostandosi per conto loro nel palazzo, indipendentemente dal giro delle stelle/sudditi intorno alla sala del trono, e danzando a volte con piroette estrose e irregolari. Se gli isolani guardavano verso Sud, potevano vedere la principessa/futura regina e i cinque principi spostarsi da sinistra a destra nel corso della notte.
Questa, secondo me, era la religione e la scienza astronomica dell’antica isola di Corcira e il poeta Omero, selezionandola tra altre cento, decise che meritava di essere ricordata e annotata nel suo grande poema che chiamarono Odissea."

Fernanda Facciolli, dal libro "Il giardino celeste", Amazon, 2020, pagg. 176-183.

In quest’opera ho voluto rappresentare i cinque principi, figli di Alcinoo, come entità alate perché sospese nel vuoto del cielo; i due adulti corrispondono agli "sposi" di Omero e i tre bimbi sono i "garzoni fiorenti". Un'immagine umanizzata degli spiriti luminosi che tante volte da bimba ammiravo nei cieli italiani.
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